L' imputata - LAUDOMIA BONANNI

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L' imputata

Le opere

La Bonanni, prima del 1960, anno de L’imputata, propose al pubblico dei lettori una lunga serie di racconti pubblicati su quotidiani e riviste, riconducibili al romanzo, con un’ostinata scadenza annuale e con continue varianti di situazioni e personaggi rispetto ai nuclei narrativi del romanzo. Prima fu Grigio all’alba (1949), poi Processo alla casa (1955), infine L’imputata. Sono da numerare 21 racconti usciti tra il 1948 e il 1959 prima dell’uscita del libro. In una lunga intervista concessa al settimanale «L’Italia che scrive» pubblicata nel numero di agosto-settembre 1955, così Laudomia Bonanni parlò del nuovo romanzo in preparazione:


"L'imputata" 1960, Premio "Viareggio".(Foto: Archivio Bonanni)



Parlare del libro al quale si sta lavorando è difficile. È come fare delle confidenze troppo intime. Se ne avrebbe magari voglia, forse anche bisogno, ma sempre occorre vincere una resistenza interiore. Comincerò dal titolo, che può darsi non sia ancora definitivo Processo alla casa. In principio era Grigio all’alba, ma restringeva il disegno del romanzo.
Si tratta infatti d’un romanzo, di vaste proporzioni, fitto di personaggi. Sono gli abitanti di un intero casamento, molte famiglie, la vita quotidiana vista per lo più attraverso le donne sui caposcala e i bambini in cortile. Una casa qualunque nel dopoguerra, dove tutto sembra tornato normale. Sotto questa apparenza di normalità, maturano e si manifestano le situazioni famigliari profondamente alterate, i turbamenti infantili, gli sconvolgimenti dei ragazzi.
È la cronaca di un anno in cui, già attraverso il susseguirsi ininterrotto di piccoli e grandi crolli come d’assestamento, fino al culmine della tragedia, si avverte un senso di recupero. E saranno in ultimo i bambini a ritrovarsi, nonostante quel «grigio all’alba» che li ha privati di una parte dell’infanzia, per l’impeto stesso della vita che è in ogni essere nuovo. Non credo di aver reso l’idea del romanzo, nemmeno d’aver spiegato il perché del secondo titolo: sarebbe troppo lungo e complesso. Del resto non ho mai saputo parlare del mio lavoro: è solo un tentativo malriuscito, appunto come una confidenza troppo intima. Aggiungerò che sono impegnata in questo libro da quattro anni (ma non è molto il tempo che posso dedicarvi), che l’impianto ne è stato arduo, e che mi è costata fatica separarmi dalla felice fluidità del racconto che viene quasi da solo, per mettermi alla rigorosa costruzione del romanzo. La sola parola tecnica mi fa rabbrividire. Mi ci sono via via conciliata. E ora comincio a essere, prudentemente, soddisfatta.


Il cortile del palazzo dove è stato ambientato il romanzo L'imputata, prima del sisma del 6 aprile 2009.
(Foto: E. Valeri)
Il casamento de L'imputata dopo il sisma del 6 aprile 2009.
(Foto: F. Giustizieri)


In copertina Valentino Bompiani volle la riproduzione di un particolare della tela Le strane maschere del pittore belga James Ensor quasi a rafforzare il tragico simbolismo della guerra. Le ristampe dell’opera si susseguirono fino alla decisione di inserire L’imputata nella collana «I delfini». Il libro entrò nella cinquina dello «Strega» e vinse il XXXI premio «Viareggio» per la narrativa. Il successo internazionale arrivò con la traduzione spagnola nel 1962 (Proceso a una mujer) e francese nel 1968 (L’inculpée).


Le strane maschere del pittore belga James Ensor



Una nuova edizione, a cura della casa editrice Textus, si è avuta nel 2007 con prefazione di Liliana Biondi .


Edizione francese del 1968
Edizione spagnola del 1962


Moltissime le recensioni e i saggi tra cui spicca in significatività lo scritto della Biondi:

Sebbene la letteratura italiana sia popolata da sempre di figure femminili, che i tre massimi poeti del Trecento avevano conchiuso in tre modelli forti  -Beatrice, la donna angelicata; Laura, ovvero la donna «donna» e  Fiammetta, la donna appassionata-,  nel XX secolo, numerose artiste, poetesse e narratrici, divulgano con voci singolari non più modelli di donna ma innumerevoli modi di esistere al femminile, sviscerando, per esigenza di sincerità, le problematiche dell’enigmatico mondo interiore della donna, sotto certi profili oscuro e impenetrabile anche a Freud.
La voce di una illustre aquilana, Laudomia Bonanni, anch’essa con una sua originalità, si unisce a quelle delle scrittrici italiane, che dopo l’ esempio dell’inglese Virginia Woolf si erano diffuse con stili e forme molto personali nel primo trentennio del ‘900: dalla voce della Deledda a quelle della Tosatti, della Vivanti, dell’Aleramo, della Guglielminetti, della Terni–Cialente, della Pietravalle. Voci, alle quali si  aggiungono, coeve alla Bonanni, quelle di Gianna Manzini, Maria Bellonci, Alba De Cèspedes, Anna Banti, Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Anna Padellaro, Lalla Romano, Milena Milani, Nadia Ginzburg, per nominare le più note.
L’attività scrittoria di Laudomia Bonanni si dispiega per oltre un cinquantennio, tra il 1927 e il 1982 […], lungo il quale scorrono veloci e molteplici i mutamenti della storia, della società, della letteratura italiana. Il fascismo, la guerra mondiale e quella «civile», il dopoguerra, l’egemonia democratica, la politica del centro–sinistra, il sessantotto  e il terrorismo incidono di volta in volta sensibilmente sulla società italiana contribuendo alla sua profonda trasformazione. Alla dittatura, ai disastri delle guerre, quindi, ai disagi del dopoguerra, subentrano la rapida industrializzazione, che comporta una forte emigrazione interna dal Sud verso il Nord con il conseguente spopolamento delle campagne (la fine «del mondo delle lucciole» scrive  Pasolini) e un più evidente imborghesimento. E come avviene per ogni crescita che si manifesta troppo in fretta, la nuova società cova in sé traumi e scardinamenti, i cui esiti producono una progressiva contestazione giovanile, che porta in seno esasperato femminismo, droga e terrorismo.
Se la letteratura, come è in verità, è anche specchio della società, quest’ultima la si ritrova riflessa nel grande affresco letterario di questo ampio arco di secolo. Alle «parole d’ordine» e alla rumorosa propaganda del regime fascista, fanno eco più risonante le parole che denunciano «l’incapacità, l’impossibilità di realizzarsi, la malattia di volontà, l’inettitudine a vivere» dell’uomo contemporaneo. La guerra mondiale e quella «civile» esercitano nuovi influssi sull’attività letteraria: è la fase del movimento neorealistico: più che una vera e propria poetica, esso è frutto del «bisogno di testimoniare e raccontare il vissuto».
Nuovi eventi storico–sociali, intanto,  incalzano e la letteratura allarga i propri orizzonti espressivi e tematici. I turbolenti anni ’60 si caratterizzano per due orientamenti letterari: accanto a una tematica esistenziale, che guardando ontologicamente e non storicamente alla condizione umana evita la società odierna, se ne pone un’altra che affonda il proprio bisturi nella denuncia dell’inautenticità del mondo capitalistico contemporaneo, incidendovi talvolta, con moduli e tecniche fortemente innovativi, consoni, in ambito artistico, al clima della contestazione giovanile dominante per circa un decennio. Ma già a metà anni settanta si registra una certa forma di restaurazione, di riflusso strisciante: l’industria culturale si rivela abbastanza forte e si adegua alle nuove esigenze ampliando il proprio mercato a un pubblico più differenziato, vasto e competente, con una produzione letteraria rispondente a ogni urgenza e ad ogni gusto, fino, talvolta, a rischiare di smarrirsi.
In questo panorama complessivo, la narrativa di Laudomia Bonanni si dispiega con coerenza rispetto alla evoluzione dei tempi. Lettrice assetata di tutto e amante sin da piccola della scrittura, la Bonanni trae ispirazione tematica dalla professione d’insegnante elementare e più marcatamente da quella, come membro privato, di giudice di tribunale minorile, dispiegata per lunghi anni. E si muove in quegli stessi ambienti in cui le attività professionali la portano: gli sperduti paesini di montagna […], la città di provincia […], la grande città, dispersiva e subdola. […].Lì prendono vita i personaggi della Bonanni: le donne, in primo luogo, vere protagoniste  della sua narrativa. Le infaticabili donne di paese, depositarie naturali della vita di cui sono inesauribili genitrici, e della vita che respira loro intorno: la casa, la famiglia, le tradizioni. Donne cresciute nella fatica più che nel lavoro; indifferenti e severe verso le figlie femmine, benevole e prodighe, sempre, con i figli maschi […]. E le donne non meno infaticabili, soprattutto a partorire, ma più distratte ed egoiste o, almeno, più egocentriche, della città di provincia del dopoguerra, proiettate da più o meno passiva curiosità verso il mondo banale che loro gira intorno; più indolenti, fredde, incoerenti, impreparate al ruolo di madre in un mondo ancora frastornato dal recente passato e già in corsa verso un futuro sempre più tecnologico; un mondo che ha ampliato i propri orizzonti, apparentemente più aperto e libero, in verità più sibillino, dispersivo, pericoloso per chi è attratto  solo dal bagliore esteriore che esso proietta. Protagonisti della narrativa della Bonanni, sono, poi, non meno delle donne, i bambini,  ad esse strettamente legati, nel bene e nel male, per la loro stessa esistenza. […]. Infine, ma non ultimi, lo sono gli adolescenti, soprattutto i maschi, molto più sfortunati e fragili, che vivono nelle città del dopoguerra: giovani e giovanissimi disancorati da ogni protezione e vittime della guerra conclusa. E non solo perché questa li ingoia con i propri reperti inesplosi, disseminati nel suolo, nella sua spirale di sangue, di mutilazione e di morte, ma perché la città è ora disgregatrice dell’ordine costituito e dei valori a cui prima si credeva e si ubbidiva quasi come a una legge naturale: ed erano valori che prediligevano il maschio. Purtroppo, sono proprio i figli maschi le maggiori vittime sacrificali della nuova indifferenza materna e sociale che si cela non solo tra i caseggiati popolari ma anche dietro il bagliore di vacuo benessere della immatura società industrializzata, cresciuta troppo in fretta.





Premio "Viareggio" 1960. (Foto: Archivio Bonanni)


[…]. La ribellione sorda, silenziosa e graduale delle donne della Bonanni, iniziata con Palma del racconto omonimo, e diversamente manifestatasi con le «sorelle», come detta il titolo della raccolta (Casini, Roma 1954), raggiunge il momento apicale in negativo nei due romanzi più noti della Bonanni,
L’imputata del 1960 e L’adultera del 1964. Pubblicati presso Bompiani e premiati negli anni in cui si inasprisce la battaglia del movimento femminista, essi suonano come uno stridente campanello d’allarme se non di denuncia nei confronti della donna, quando questa, chiusa nelle proprie insoddisfazioni, nelle proprie angosce, nei propri egoismi, o abbagliata da effimeri valori, sottovaluta e trascura il proprio ruolo di madre, nuocendo ai figli adolescenti.
Chi è l’imputata dell’omonimo romanzo? Come è stato unanimemente ritenuto dalla critica, è sì la guerra, che sebbene conclusa si respira costantemente tra le pagine del testo, la guerra foriera di violenza e di paura covate per anni,  paura della morte o, meglio, paura di perdere la vita che seppure ha un sapore «amarognolo […] non stufa», paura dei bombardamenti  testimoniati dalle macerie, paura delle mutilazioni decretate a sorpresa dai residui di guerra, paura dell’oggi precario ed incerto, paura delle istituzioni burocratiche, passive, retrograde, impreparate, spaventate, esse stesse: «la paura collettiva», riconosce il sostituto Lanti, al quale, nel romanzo, sono affidate le difficili inchieste giudiziarie del caseggiato di provincia. Ma la vera imputata è qui la donna, in particolare la madre, fragile e rivendicatrice, chiusa nei propri egoismi, distratta e abbagliata da  valori effimeri, palese traditrice della propria stessa natura, madre solo di parto: «Sembrano tutte gravide, un’atmosfera indecorosa da reparto maternità. Comode e placide: le donne ripopolano il mondo e sono a posto», pensa il presidente del tribunale.
Non vi è, nel romanzo, un atto d’accusa diretto contro la donna  da parte dell’autrice, ma esso si respira costantemente, pur nella impersonalità della narrazione, in quel  suo stare tutta, dalla parte delle giovani vittime, bambini e giovanissimi alla mercé degli adulti. Vite trafitte che hanno il loro simbolo in una presenza solo apparentemente decorativa, ma insistentemente ricorrente: un’ala in volo trapassata da una freccia scolpita su uno scudo che raffigura parte dello stemma in un antico palazzotto barocco sito vicino al grosso casamento teatro degli avvenimenti;  una presenza che si ripete nella memoria e nei disegni del sostituto Lanti. Anche ai numerosi bambini del caseggiato sono state trafitte le ali; nessuno fa loro da scudo, indifesi come sono alle numerosissime insidie quotidiane. La loro stessa vita ci viene offerta a brandelli, colta, ora quella di uno ora quella di un altro a piccoli morsi magistralmente offerti dalla scrittrice con un periodare breve, incisivo, icastico, vibrante, e con una struttura  della trama ad incastro che tiene desto il lettore e lo obbliga alla rilettura per non smarrirsi in quel labirinto di nomi, di stanze, di balconi, di porte, di scale, di vicoli, dove la luce si accende ad intermittenza per cogliervi pulsioni di vita in cui troneggiano sempre le donne: le madri, ora oscuramente possessive e iperprotettive, ora indolenti e indifferenti, ora smemorate e incoerenti, furbe («noi se ne sa più del diavolo»), pettegole, curiose, enigmatiche, vanitose, imbellettate. Accanto alle donne, direttamente o indirettamente, si avvicendano i piccoli e i grandi drammi dei figli: dal cadaverino del neonato, con cui si apre il romanzo, che i bambini rinvengono in un grosso cartoccio di giornale in cima al mucchio delle immondizie vicino al casamento e di cui non si troverà mai la madre assassina; a Ughetto Salviati, il diverso che avrebbe voluto nascere femmina; a Gabriele, l’adolescente commesso d’albergo che viene ritrovato impiccato: «suicidio», ma «a nessuno della casa, neanche ai genitori, venne in mente che non si fosse tolta la vita con le proprie mani»; a Ninni, che parla solo attraverso i suoi disegni, e che di lì a poco, trascurato dalla madre una volta isterica  e  che ora ha trovato  nuovi interessi, diventerà il nuovo capo dei ragazzi del casamento. Ma egli «non era come Gianni:  li picchiava e implorava di essere amato».
Gianni: è lui il personaggio su cui la scrittrice vigila con maggiore assiduità. Presentato sin dalle prime pagine del romanzo come «il ragazzo della cicca», descritto  secondo i canoni delle schede di polizia, egli viene colto più volte nel buio del "sottoscala" di casa, e qui, malgrado il mascheramento del termine, è palese l’intento introspettivo e profondo suggerito da Dostoevskij. Gianni ha solo quattordici anni, è orfano di padre, è la guida fidata di tutti i bimbi e i ragazzi del casamento, è il custode tenero e accorto della dolce Sandrina soggetta più alle attenzioni dello zio che a quelle  della «bionda» madre.  Gianni ha, inoltre, una mamma «belloccia» e un aitante pensionante in casa. E un giorno, poco prima che una scossa di terremoto squassi l’aria, mentre gioca con i bottoni sotto il letto, egli infilza inaspettatamente, attraverso le reti, la lama del suo coltello nel petto dell’uomo addormentato  che gli aveva sottratto le premure della madre e l’orologio d’oro del padre a lui promesso invano per il giorno del suo quindicesimo compleanno. Dopo i due precedenti delitti archiviati per mancanza di indizi (quelli del neonato e di Gabriele), il romanzo, un giallo sui generis, ha - finalmente! - un imputato. Ma, durante il processo, solo allora, si alza il grido della madre: «È colpa mia!», e sembra essere il grido un po’ di tutte le mamme del caseggiato, poiché ognuna ha la propria colpa. Una colpa che in questo caso espia solo il ragazzo, Gianni, portato «in osservazione per la perizia  psichiatrica a un manicomio criminale»; e con lui la espiano tutti gli altri giovanissimi, innocenti, figli della crisi del trapasso, orfani bianchi di madri che cominciano a percepire il proprio ruolo troppo stretto e che, forse, inconsapevolmente solcano altre strade. «Le donne ce la fanno sempre al posto dell’uomo. Le donne sono dure a impazzire», aveva preconizzato l’autrice con drammatica freddezza; infatti, «partito Gianni, due pensionanti maschi andavano su dalla Falone che aveva due camere da affittare». Con queste parole, di provocatoria, mascherata indifferenza, la Bonanni conclude il romanzo.
L’indifferenza: eccola la nuova grande colpa della donna che scuote la coscienza della scrittrice, impegnata, come ho detto, in ambito sociale sul fronte della devianza giovanile.  […].

Liliana Biondi, La narrativa di Laudomia Bonanni: dalla maternità naturale alla "mamma" solidale, «provinciaoggi», XIII,  lug-sett. 1996, pp.31-39.



 
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